Camille ha trentacinque anni e lavora da sei presso una panetteria del centro. Il suo mestiere le appaga a sufficienza. Certo, non era quello che aveva sognato se avesse avuto più coraggio anni prima, ma le consente di vivere senza pretese, nè particolari difficoltà. Questo è quello che le basta.
Da un po' di tempo, una volta a settimana, si presenta all'appuntamento con se stessa (e la sua psicoterapeuta), dacchè in principio, una sorta di infelicità costante, l'aveva condotta lì. Camille non era triste, nè particolarmente "acciaccata", ma era come avvolta da uno strato di cellophane, di quelli che servono ad avvolgere i cristalli fragili durante l'ennesimo trasloco. Ecco, era proprio un flute di vetro sottilissimo, protetta e ovattata da una pellicola piuttosto spessa. Sono certa che se si fosse scoperta, sia in senso fisico che figurato, a quello strato trasparente, avrebbe dato l'occasione di ispessirsi un po', di bastare a se stesso e non aver più bisogno di plastiche attillate. Tra un confronto e l'altro, era emerso che il suo limite andava individuato nell'impossibilità di essere (stata) fino in fondo, di sperimentarsi completamente, per non recare disturbo e scompiglio attorno a sè. Era esistita solo così come l'avevano voluta. Quelle che sarebbero dovute essere le sue scelte, essenziali a definire la sua vera persona, erano state bruscamente censurate e ignorate, sostituite invece da delle altre non provenienti da sè. E così, non potendo essere e realizzarsi, il suo sè era stato solo pensato e non agito. La donna si era congelata e assottigliata fino a diventare immobile e bisognosa di uno strato che le desse consistenza. Più tendente all'avere che al sentire, all'immaginare in forma embrionale più che al realizzare nella realtà, viveva in una sorta di stand-by dell'anima, immaginando solo nella sua testa tutte le occasioni nelle quali si sarebbe concessa il privilegio di rimettere in moto le cose.
"Le operazioni puramente intellettuali rischiano l'insidia della "modalità dell'avere". Perfino l'io, se solo pensato, diventa ego, oggetto che si ha. Nella "modalità dell'essere" vi è l'esperienza di non pesare sugli altri, di non appoggiarsi sulle situazioni, in quanto l'io si avverte come centro attivo della persona, che si regge su se stesso e per questo può introdurre nei rapporti umani una levità di gioco che alimenta la libertà."
Avere qualcosa, possederla, implica un controllo su di essa, necessario per assicurarsi che quella sia ancora roba nostra. Il controllo incasella, struttura, domina, blocca, gela, irrigidisce. Il dominio dell'essere confina con quello della vita, nel divenire, nello scorrere, nella generatività, nella possibilità di nuove azioni, pensieri, idee, nella creatività dunque, nel poter sperimentare senza bisogno di ritrovarsi in schemi prestabiliti e attesi.
Il pensare e basta aliena l'oggetto del pensiero e gli impedisce di essere, l'attesa che qualcosa accada ne sancisce la sua irrealizzabilità. Il fare, l'agire, la speranza che immagina un qualcosa e in quella rappresentazione la fa divenire, produce degli esiti.
E' per questo che "Fromm insiste sulla non sufficienza della presa di coscienza. L'effetto trasformatore di questa si ha veramente solo quando a una profonda comprensione consegue un agire, un muoversi nel proprio mondo, incarnando in nuove condotte ciò di cui si è divenuti consapevoli.".