Grazie perché mi hai reso la Salerno Reggio Calabria più leggera e sempre più corta.
Grazie per quei momenti in cui mi hai aiutato a raggiungere le vie che portano all'essenza.
Per avermi fatta emozionare e rabbrividire quando meno me lo sarei aspettata.
Grazie per essermi arrivato anche quand'ero piccola, ed essermi rimasto dentro così che ti potessi scoprire ancora meglio da più grande.
Grazie per avermi insegnato che un uomo in grado di raggiungere una sensibilità così raffinata esiste e che non ci si deve accontentare delle banalità e della stupida retorica.
Grazie, infine, per aver dimostrato che in un animo inquieto c'è posto anche per le risate rumorose condivise con chi è importante e che non necessariamente queste due forme dell'esperienza debbano escludersi a vicenda. Si possono tenere insieme, in un unico pezzo stabile e coerente.
[GILGAMESH olio su tela 40 60, Franco Battiato]
Ero evidentemente di parte quando ho deciso di andare a vedere questo docufilm in sala, volutamente sola. Quando con un sorriso costante ho cercato di assorbire ogni scena. E lo sono adesso nel dire due sciocchezze a riguardo. Probabilmente chi ne capisce davvero ed ha uno sguardo più distaccato potrebbe dire tutto il contrario, probabile sì. Questa però è la mia versione appunto, volutamente spontanea, impulsiva e a bruciapelo. Non sulla tecnica, ma su ciò che mi è arrivato.
Ho amato il modo in cui Spagnoli sia riuscito a disegnare il personaggio di Battiato attraverso le impressioni che ha costruito scena per scena. È come se il climax del documentario sia stato cucito sull'essenza del cantautore. Racconti, immagini, suoni trasmettono dapprima l'aria pop, autoironica, movimentata, curiosa, affamata di Battiato, per poi chiudersi in scene più intime, spirituali, sospese ed ovattate che rimandano alla sua interiorità riservata e silenziosa in grado di comunicare l'incomunicabile. Le musiche, naturalmente, sono state di grande (fondamentale) supporto per questo espediente: il film si apre con "Centro di gravità permanente", che Morgan, ci spiega, trattarsi della ricerca di un centro da parte dello stesso brano musicale, il quale sin dall'inizio un centro ed un equilibrio non ce l'ha (per le tante e ricche immagini evocate, troppe, scollegate le une dalle altre, caotiche).
La chiusa si suggella invece nell'esecuzione integrale de "La cura", la canzone d'Amore più elevata di tutti i tempi (della quale la regista Giada Colagrande dà un'interpretazione che mi piace voler credere reale: quella canzone d'amore, in realtà, Battiato l'avrebbe dedicata alla sua stessa anima).
A primo impatto vien da dirsi quale cliché, ma dopo la seconda strofa si realizza che messa lì, praticamente al termine, risulta perfetta e imprescindibile. Quando ho fatto questo ragionamento in sala ho provato la stessa sensazione che Napulè è di Pino Daniele mi ha dato in "È stata la mano di Dio". Era semplicemente necessaria.
L'operazione di Spagnoli non è banale e retorica; non si configura come tale perché riesce a realizzare il desiderio che più gli sta a cuore all'interno del film: il trattare con cura e delicatezza ogni aspetto della vita e della persona che Battiato è stata. Con Cura, appunto.
Qui si parla di un uomo che nonostante la sua essenza poco terrena e comune è riuscito ad arrivare a tutti, anche nei paesini più sperduti ed aridi della Sicilia. A me piacciono gli esseri umani così, un po' angelici, rarefatti e multiformi, eppure così solidi e genuini. Battiato è stato in grado di elevarsi ad uno stato di spiritualità sconfinato pur rimanendo ben ancorato alla vita e alle questioni più concretamente umane. L'ennesima conferma di quanto sia bello essere sfaccettati contenendo dentro di sé diverse forme ed essenze.
Video del concerto a Baghdad del '92.
"Quando mi hanno chiamato dall'ambasciata irachena e mi hanno chiesto di fare un concerto ho detto subito di sì, senza pensarci tanto. E non è da me, che penso molto prima di fare una cosa, e che ho rifiutato altri concerti apparentemente più importanti di questo. Inutile dire che mi sono trovato contro mille persone. Sei pazzo, mi dicevano, vai cantare per il regime di Saddam Hussein. Non è così, ho sempre risposto; tutti coloro che erano con me sanno che se avessi visto in platea una divisa o un mitra non avrei cantato, se fosse arrivato Saddam Hussein mi sarei trovato in grave imbarazzo. Ma per fortuna non è venuto. E' inutile ribadire che lo scopo principe della mia visita in Iraq era umanitario, perché non trovo giusto che un popolo debba soffrire per colpe non sue; ma è anche vero che credo sia giusto dare a tutti una possibilità di redenzione, perché molti assassini sono diventati santi. E ritengo sia stato altrettanto atroce l' uso spettacolare che gli americani hanno fatto della guerra del Golfo, quel costringerci a ritrovarci al mattino con i punteggi aggiornati, come fosse stato un incontro di boxe. Io ho portato musica. La musica prescinde da tutto, riunisce sul serio la gente, la musica è un' arte sublime, un importante momento di aggregazione. Di questo viaggio ricordo la commozione dei musicisti iracheni, che non hanno più nulla, e che hanno ricevuto spartiti, ance, corde per i violini. Ricordo quel pianoforte che abbiamo dovuto accordare a 440 invece che a 442 per paura che saltasse tutto. Non ci sono libri, non c' è possibilità di continuare a studiare, e se la cultura, le notizie non arrivano è difficile che un regime si possa contrastare".